GIOVANNI LODETTI, un grande campione di calcio e umanità
Ogni volta che si pensa a Giovanni Lodetti, si tende a banalizzare il suo modo di giocare, inteso unicamente come il solito guardaspalle tutto polmoni e corsa dietro alle movenze inarrivabili del Golden Boy Rivera. In realtà era molto generoso nella corsa ma anche dotato tecnicamente, con il vizietto del goal, oltre a essere un affidabile e carismatico punto di riferimento dentro la squadra. Non a caso nelle giovanili del Milan era capitano e lo fu pure quando approdò alla Sampdoria, dove giocava un certo Luisito Suarez, altro campione e Pallone d’Oro.
La sua generosità unita a buona visione di gioco era molto apprezzata e così si spiegano il suo buon utilizzo e di conseguenza i trofei vinti in carriera: due scudetti, una Coppa Italia, due Coppe dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Intercontinentale e un Campionato d’Europa con la Nazionale. Ci fu poi la brutta faccenda riguardante l’avventura di Messico ‘70, prima convocato e poi rispedito a casa con la beffa di non poter neppure negoziare il proprio passaggio dal Milan alla Sampdoria in quanto fuori dai termini di contrattazione del mercato riservato ai giocatori della Nazionale. Un episodio che gli ha segnato la carriera, ma, nonostante questa disavventura, Lodetti dimostra grande umanità insegnandoci a non portare rancore a nessuno. Il suo percorso calcistico poi proseguì nella bella Sampdoria di Heriberto Herrera, nel Foggia talentuoso di Toneatto e Cesare Maldini, per concludersi infine nel Novara.
- Quando pensa al calcio, quale sentimento affiora principalmente?
Emozione. È un’emozione, da sempre, da quando feci il primo provino a 14 anni. Mi ricordo che arrivai al campo Scarioni e c’erano tanti ragazzini pronti all’esame. Mi buttarono nella mischia, mi videro giocare e il provino fu ritenuto positivo. E così l’allenatore delle giovanili del Milan di allora, Mario Malatesta, mi diede subito da indossare una maglia rossonera. Ricevere la maglia del Milan fu un’emozione incredibile e sancì poi l’inizio di tutta la mia carriera.
- Le piace il calcio di oggi?
Mi piace un po’ meno rispetto a una volta, si è un po’ impoverito.
- Il Calcio Italiano avrebbe bisogno di un nuovo rilancio. Se potesse decidere lei, quale sarebbe il suo piano e con quali idee?
C’è necessità di vedere più campo e meno beghe. Troppi interessi. Bisogna ripartire dal gioco in sé.
- A suo parere qual è stato il più grande calciatore in assoluto della Storia del Calcio?
Ne dico due. Rivera e Suarez. Due grandi con cui ho avuto il privilegio di giocare.
- Da ragazzino a quale giocatore si è ispirato?
In realtà ad un trio: il Gre-no-li. I grandi Gunnar Gren, Gunnar Nordahl e Nils Liedholm.
- Qual è o è stato il talento più inespresso mai visto?
Più che inespresso ancora da crescere. Penso a Verratti, che può diventare un grande.
- Qual è stata la partita indimenticabile della sua carriera?
Ovviamente il derby del 15 novembre 1964, Inter-Milan: 0-3. Mi domandi perché? Perché segnai una doppietta alla Grande Inter di Herrera e non eravamo favoriti...
- Chi è oggi il più bravo nel suo ruolo?
Dico ancora Verratti, mi piace come gioca e un po’ mi ci rivedo nel suo ruolo.
- Il suo 11 ideale di tutti tempi?
Cudicini, Anquilletti, Baresi, Rosato, P. Maldini; Dino Sani, Matthäus, Rivera; Donadoni, Van Basten, Amarildo
- Pratica, o ha praticato, sport alternativi al calcio?
No, solo calcio. Anche quando ho smesso da professionista ho continuato a livello amatoriale.
- Oltre al calcio coltiva o ha coltivato altre passioni?
Ho un po’ la passione per la cucina.
- Quale auto posseduta le è rimasta nel cuore?
Una Porsche 911, colore arancio del 1970.
L'ANEDDOTO di Giovanni Lodetti
Dopo aver concluso la mia carriera da professionista intrapresi un’attività commerciale nel settore della ceramica. Ma dopo un po’ mi venne nostalgia e voglia di tornare a calcare i campi di calcio. E così per fare footing mi recai un sabato mattina a Trenno, un grande parco vicino a San Siro, pieno di campetti con squadre di calcio improvvisate che si formano lì al momento. C’era in corso una partitella e mi avvicinai per chiedere se potessi giocare anch’io. Io non dissi chi ero, mi videro un po’ in là negli anni, con la mia calvizie e mi risposero che erano a posto così. Dopo un po’ però si fece male uno dei giocatori e così furono un po’ obbligati a farmi entrare per pareggiare gli organici in campo. Le distanze nei miei confronti si attenuarono man mano che mi videro giocare. Mi chiamarono subito Giovanni Ceramica per via della scritta sulla felpa che indossavo. Lo scetticismo nei miei confronti si tramutò in stupore per il mio modo di giocare e così mi diedero appuntamento al sabato successivo. Mi ripresentai dopo una settimana e iniziammo a giocare la nostra partitella e così per due anni. Fino a che un giorno, uno spettatore a bordo campo mi riconobbe e comunicò a tutti chi effettivamente fossi. E così una volta svelata la mia identità iniziammo insieme un percorso di amicizia con quei compagni di gioco che ci portò a calcare quel campetto per altri vent’anni.